14 nov 2011

Una storia indiana (anzi no, italiana)

Sono in stazione, una piccola stazione. Oggi fa freddo e le donne sono appiccicate ai due caloriferi dell'atrio, imbacuccate come solo le donne sanno fare quando sentono il primo freddo.
Chissà per quale ragione - non hanno annunciato nessun treno in arrivo - esce il solito tizio che trasporta una grossa valigia e per attraversare la porta che dà adito all'esterno, la spalanca e la lascia così, oltre quella posizione che non le permette di richiudersi automaticamente.
Le donne hanno freddo, ora lo sentono di più e gli uomini pure; parlano del freddo e rabbrvidiscono alla corrente gelida che entra dalla porta spalancata, lí a soli 10 metri.
Una delle donne si serra il bavero del piumino e si volta a guardare indispettita la porta aperta. L'altra delle due scherza sul freddo serrandosi il bavero anche lei. Parlano del freddo che ora è diventato un argomento vivo e guardano la porta che resta spalancata. Un indiano magro, a metà dello stanzone, vestito con una sottile giacchetta sembra avviarsi all'uscita ma ferma il suo movimento sulla soglia, semplicemente chiudendo quella porta che creava problemi a tutti, un semplice indiano, uno che viene da fuori, uno che non ha nessuno con cui parlare del freddo e che semplicemente lo sente, lo vive e non lo vuole: bastava così poco. Le donne riprendono a chiacchierare più tranquille.
Ma la quiete in una stazione dura poco, annunciano il treno per Venezia e tutti escono, tenendo la porta aperta, anzi spingendola oltre quel punto che non le permette di richiudersi. Anche l'ultimo è uscito: è un creativo, lo si capisce da lontano per come veste e come si circonda di gadget da creativo. La porta resta aperta, spalancata, spinta oltre quel punto che no nle permette di richiudersi. Io sono qui in attesa del treno per Milano, tra pochi minuti, in un atrio freddo, inutilmente riscaldato da due grandi termosifoni, con una porta timidamente chiusa da un indiano e lasciata aperta da cittadini italiani.
Io non sento tutto quel freddo perché alla fin fine siamo solo in autunno, ma i primi rigori colgono impreparato il metabolismo cittadino. Sono rimasto qui a guardare incuriosito cosa avrebbero fatto i miei vicini di stazione ed ora resto qui a pensare e meditare sulla crisi cui stiamo andando incontro: come faremo a fare andare meglio le cose se non riusciamo nemmeno a prendere l'iniziativa su ciò che ci colpisce direttamente? Che l'Italia esca dalla crisi in avvicinamento è molto improbabile se non abbiamo nemmeno la capacità di reagire in prima persona. E se non sappiamo nemmeno apprendere da un esperienza di pochi minuti prima per non ripeterla, se non siamo capaci di vedere che ciò che ha dato fastidio a noi un minuto prima crea sicuramente lo stesso problema negli altri che rimangono dietro di noi come pensiamo che ci possa essere un miglioramento?
Non credo che siamo un popolo maturo per essere in un paese civile: nessuno, nemmeno quelli che protestano vivamente, nemmeno quelli che credono di saper pensare. Non pensano, vaneggiano

Forse è ora di smettere di dire "si dovrebbe fare..." e si dovrebbe cominciatre ad agire.
NO stavo scherzando: mettiamoci in azione - io, tu, noi tutti - io ho scritto per voi queste righe perché conto che diventiate più sensibili agli interessi degli altri, più attenti, più pieni di iniziativa.
Voi meditateci sopra approfonditamente e fatele leggere agli amici!
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